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RIFLESSIONI AL MARGINE DELLA FESTA DEL LAVORO

di Aldo Fortunati

 

Di fronte allo spettacolo planetario offerto, nel recente “ponte lungo” del 25 aprile, dai nostri parlamentari, opportunamente richiamati all’ordine dal Presidente del consiglio per aver disertato il momento di approvazione del documento di economia e finanza, significando simbolicamente – e forse non solo – la distanza fra consapevolezza dei problemi e responsabilità di governo, il “ponte corto” del 1° maggio merita di essere speso per una pausa d riflessione su alcune questioni che continuano a non superare la soglia minima di attenzione da parte della politica.

Prima constatazione

L’estrema facilità con cui si parla della necessità di diffondere l’offerta dei nidi (pur ricorrendo – e non lo consideriamo semplicemente un lapsus ma un vero e proprio difetto di coscienza – alla passata denominazione di “asili nido” o addirittura a quella ormai fuori dal tempo di “asili”) è inversamente proporzionale alla capacità di “mettere a terra” (come si usa dire) qualcosa che assomigli a un programma di sviluppo.

Seconda constatazione 

Quanto, appunto, ai programmi di sviluppo – ci riferiamo a quelli relativo allo 0-6 – gli manca davvero tutto, tranne la diffusa consuetudine a dare al vento sia i numeri che le parole. E vediamo brevemente perché.

1. Per quanto riguarda le scuole dell’infanzia, il PNRR prevederebbe di incrementare i posti nella misura di 80.000 in una situazione in cui il decremento demografico ha prodotto negli ultimi anni, per una istituzione educativa già da tempo generalizzata, la chiusura di oltre 1.500 scuole e di circa 6.000 sezioni senza nessun programma di riconversione in nidi (alla faccia della riforma dello 0-6), rendendosi plasticamente evidente: a) che i numeri dello sviluppo programmato sono stati dati a caso, b) che la scuola dell’infanzia ha bisogno di molte cose (qualificare gli spazi, fare formazione e sperimentare l’innovazione) ma non di incrementare i suoi numeri, c) che guardare nella direzione sbagliata non solo non fa andare avanti ma produce un consolidamento della stasi permanente del sistema (pensiamo sempre alle scuole dell’infanzia), in cui nemmeno la rilevante diminuzione del numero medio di bambini per sezione – da 23 a meno di 20 – ha restituito qualità al lavoro delle insegnanti.

2. I nidi sono fermi al palo da 10 anni e il dato di incremento del tasso di copertura – ormai superiore al 25% - non deriva dall’incremento dei posti ma (sigh) dal decremento del numero dei bambini. Allo stesso tempo, le modalità con cui è stata programmata la destinazione delle risorse del PNRR per aumentare di oltre 150.000 posti i nostri nidi non poteva essere gestita con minor grado di programmazione e coordinamento, cioè con bandi nazionali rivolti direttamente ai Comuni e senza alcun criterio di valutazione nel merito dei progetti presentati, con la conseguenza di far ricadere le colpe della probabile inefficacia della spesa sui poveri Comuni, lasciati soli a caricarsi sulle spalle non solo gli oneri della progettazione e della gestione delle procedure lungo un cronoprogramma irrealistico, ma soprattutto abbandonati a loro stessi per la mancanza di una governance nazionale, che si è confermata assente sia sul piano della programmazione che – ancor di più e sempre – su quello del supporto alla copertura dei costi di gestione dei servizi (compreso il disegno del “fondo di solidarietà comunale” che non si capisce come dovrebbe garantire la sostenibilità dei nuovi nidi, per non parlare di quelli già esistenti).

3. Unico dato che si conferma stabile, sebbene avrebbe dovuto trattarsi – ci riferiamo agli accessi anticipati alla scuola dell’infanzia – di un fenomeno ad esaurimento, sono proprio i 60.000 bambini accolti prima del tempo in una scuola dell’infanzia, tradendo ogni basilare criterio di qualità (basti pensare che un bambino che ha bisogno di essere cambiato produce come effetto o che le docenti chiamano a casa per far intervenire la mamma o che i bambini vengono accreditati come “bambini con bisogni speciali” e come tali meritevoli dell’intervento di apposito personale ausiliario di assistenza) e sostituendo in modo pernicioso la gratuità dell’accesso alla scarsa qualità dell’accoglienza offerta. Davvero paradossale che l’unico modo perché lo Stato si assuma la responsabilità di coprire i costi di gestione del servizio sia quello di accogliere i bambini nel posto sbagliato, animando proprio così un serissimo e reale pregiudizio allo sviluppo dei nidi (nel mezzogiorno spesso i bambini anticipatari sono più di quelli accolti nei nidi) visto che – altro paradosso che i fatti si incaricano di mostrare – difficilmente una famiglia manderà il proprio bambino in un nido a pagamento finché può mandarlo gratis come anticipatario in una scuola dell’infanzia.

Terza constatazione

Il numero dei bambini continua a diminuire, segnalando che tale è e tale sarà la prospettiva finché gli unici argomenti della politica sono le mezze soluzioni o la retorica.

Quanto alle mezze soluzioni, tale è ad esempio parlare – e sparlare – di “nidi gratis”, riferendosi a provvedimenti che non cancellano il fatto che i nidi continuano ad essere a pagamento, ma prospettano piuttosto agevolazioni e sgravi nel pagamento della retta. Forse per una famiglia non cambia molto se il servizio è gratis o se le viene rimborsata la retta pagata, ma a qualcuno verrebbe in mente una cosa del genere nel caso della scuola primaria o anche solo della scuola dell’infanzia? Se l’educazione è un diritto non può essere a pagamento, nemmeno pensando di cavarsela poi facendo gli sconti al suo costo. Per non parlare del fatto che mentre lo Stato spende ogni anno sette miliardi per le scuole dell’infanzia – non a caso generalizzate – non spende quasi nulla – e per questo il loro sviluppo è bloccato – per coprire i costi dei nidi.

Quanto alla retorica, se i bambini sono – come sono, o almeno dovrebbero essere – un valore sociale, forse non basta pensare che il problema sia delle madri, né delle donne potenzialmente tali, le quali – e guai a gravarle per questo di una responsabilità o, peggio, di una colpa – non possono e non devono essere il parafulmine di tutte le plateali disattenzioni che continuano a lasciare sole le famiglie che investono – o vorrebbero investire – per avere figli e a non fare nulla di serio (come abbiamo visto poco fa) per diffondere opportunità e servizi educativi di qualità in via generalizzata e assumendo le conseguenze di una scelta realizzata nell’interesse pubblico, cioè quella di pagarli con la fiscalità generale, come la salute e l’istruzione.

Se le donne italiane fanno il primo – e prevalentemente unico – figlio dopo i trenta o i trentacinque anni è perché prima vogliono studiare (e lo fanno in genere primeggiando sugli uomini), poi cercano una relazione affidabile (non necessariamente nel matrimonio) e infine desiderano un lavoro (si intende stabile), che non hanno alcuna intenzione di lasciare per il fatto di aver fatto un figlio.

Conclusione

Forse dovremmo cominciare a pensare che la prima cosa da “mettere a terra” non sono solo le risorse ma innanzitutto i pensieri, se è vero che quelli che sembrano mancare sono proprio questi, e certo ben prima delle risorse che, quando mancano mancano, ma quando ci sono non garantiscono affatto di tagliare il traguardo, se il loro uso è ispirato dall’approssimazione di sistemi di governance affidati a burocrati che non conoscono – come plateale nel caso dello 0-6 – l’oggetto delle azioni di cui si occupano o dei processi che dovrebbero orientare e monitorare o, come ancora troppo spesso, dalla semplice e vecchia retorica delle parole, come nel caso dei proclami ad armarsi per il recupero della curva della natalità, come se i bambini nascessero sulle nuvole.

I numeri, come al solito, parlano chiaro e valgono molto di più delle parole e dei proclami. E meritano, dopo la pausa del primo maggio, di lavorarci sopra davvero, tutti insieme.

 

 

 








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